Suburra, Caligari e il cinema dell’Urbe

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Negli anni Sessanta e Settanta i cinefili più militanti e agguerriti combatterono una battaglia per dimostrare che il vero cinema politico era più facilmente quello di genere che non quello d’autore. Dicevano quei critici: mica sono rivoluzionari i film di Elio Petri o di Luchino Visconti, o Ingmar Bergman e Costa Gravas, la rivoluzione sono i western di Sergio Leone e Sollima padre, o quelli di Sam Peckinpah negli Usa, i thriller di Mario Bava, gli horror di Romero, il soft-core di Russ Meyer. L’invito al pubblico italiano era a non farsi traviare dalla trame, dai giudici eroi delle pellicole anti-mafia o dai partigiani delle epopee anti-fasciste. Il vero cinema d’impegno, sostenevano, non è quello che esplicitamente affronta questioni civili o politiche – quella è roba buona per i palati poco fini del pubblico “democratico” – bensì quello che usa i codici dello spettacolo per rielaborarli a fini politici. La rivista Ombre rosse, che di questa tendenza era l’espressione più politicizzata, si vantava di preferire “la sottocultura autentica alla cultura media-borghese, Maciste a Pasolini, Riccardo Freda a Jacques Tati, Frédéric Dard a Carlo Cassola”. Il primo numero di Ombre rosse, anno 1966, uscì con in copertina il Burt Lancaster de I professionisti, western di Richard Brooks. Un manifesto teorico: una pellicola fuori dai canoni tradizionali del cinema “alto”, un protagonista “fuorilegge” e un mezzo, il fucile (i ragazzi di Or non amavano invece Leone, ma questo è un vizio di cui eventualmente renderanno conto nel giorno del giudizio).

Era una visione manichea ma non priva di forza e argomenti. Depurata delle sue velleità sovversive, frutto del clima dell’epoca, questa scuola di pensiero importò in Italia la critica revisionista che i Cahiers du cinéma avevano sviluppato quindici anni prima in Francia: combattere il cinema cosiddetto di papà, patinato e ordinato, e rivalutare la forza dello spettacolo, la finezza della forma, dunque i noir americani anni Quaranta, Hithcock, Hawks e Ford, persino certa selvaggia fantascienza Usa anni Cinquanta che pareva destinata a essere sepolta insieme ai drive-in del Colorado.

Mi chiedevo l’altra sera, appena fuori dal cinema Adriano di Roma, cosa avrebbe pensato uno di quei critici dopo aver visto Suburra. In teoria, Suburra è l’inveramento di certe aspirazioni sull’uso politico del cinema di genere. Un film sulla corruzione ma senza buoni e cattivi, senza messaggio pacificatore, senza “linea”. Al contrario, cinema di genere spintissimo, la mala come nei polar francesi, la pioggia metafisica alla Blade Runner, le sparatorie che neanche in Michael Mann, lo splatter dei pestaggi, droga, sbranamenti, orge, pisciate dal balcone. Nella Roma di Sollima si vive e si muore molto peggio che nella Los Angeles di William Friedkin. Solo che da questo lungo viaggio pulp si esce con la sensazione di non aver visto nulla di Roma vera. La suburra di Sollima, bravissimo regista, è come le Termopili di 300, un rutilante graphic novel che trasfigura e spettacolarizza con grande maestria fino a perdere ogni contatto con la realtà. È cinema, e può andar bene così, a patto di dismettere ogni ambizione di lettura sociale e politica, che pure è rinuncia singolare per un’opera che nasce su un romanzo, firmato da Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini (anche sceneggiatori del film), che legittimamente rivendica il merito di aver anticipato trame e personaggi di Mafia capitale. L’operazione Suburra è vinta se l’obiettivo è il grande ritorno al blockbuster italiano, la definitiva rottamazione dei vizi del cinema italiano medio anni Novanta, e cioè l’autorialismo senza artigianalità, il morettismo senza Moretti, il fellinismo senza Fellini e l’antonionismo senza Antonioni (che peraltro traballava pure con Antonioni medesimo). È invece persa se l’obiettivo è raccontare l’Urbe del 2015, e il Paese di cui è capitale. È persa, se si parte per fare l’American Tabloid italiano e si finisce con il sosia del papa come in un instant movie di Giuseppe Ferrara o con un’improbabile Favino che rincorre la macchina di Silvio Berlusconi pronunciando battute contro la magistratura un po’ troppo didascaliche per un film che ha più da mostrare che da dire.

Chissà insomma cosa direbbe quel critico, delle sue vecchie teorie di un tempo. Forse farebbe autocritica, dietrofront, auto-da-fé. Magari lo farebbe sicuramente, se nel frattempo gli è anche capitato di vedere Non essere cattivo. Pure nella Roma di Caligari si taglia la droga come in Scorsese e si muore ammazzati sotto le foto delle spiagge caraibiche, come succede ai protagonisti dei melò criminali di Brian De Palma, eppure il film è fuori da ogni genere, autoriale nel senso più classico, personale come un’impronta digitale e la sua forma inattuale è quanto di più potente il cinema italiano abbia saputo produrre negli ultimi anni per raccontare il lavoro, il non lavoro, le periferie, la vita vera di Roma e della sua tragicommedia umana.

Teniamoceli tutti e due, questi film. Ma mettiamoli bene in ordine di classifica.

Ps. Scopro ora che quel critico non c’è nemmeno bisogno di immaginarlo. Su Suburra Goffredo Fofi, anima di Ombre rosse, ha scritto questo. Ma non è un’autocritica…

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Renzi e il fantasma del Pd

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La caratteristica principale del dibattito sul Pd è che l’interesse dell’opinione pubblica per la materia è prossimo allo zero. Il 13 agosto, probabilmente, qualcosa in meno. Non è solo colpa della distrazione estiva. È che l’interesse delle persone tende a scemare quando l’oggetto della discussione è impalpabile. Anche le scie chimiche, gli ufo e la ‘ndrangheta a via Fani non sono argomenti solidissimi ma, a differenza del Pd, la fantasia complottista può rianimarli nello spazio di un mattino. Il dibattito sul Pd è invece così inerte da risultare impermeabile persino alla dietrologia, almeno fino a quando non spunterà un saggio di numerologia templare sui 101 traditori di Prodi o un Robert Harris non scriverà la versione italo-renziana del Ghostwriter.

Questo disinteresse è, direbbero gli studenti del Dams, un meta-linguaggio: racconta il disagio che una larga parte dell’elettorato di sinistra prova nei confronti del partito che ne dovrebbe rappresentare interessi e ideali. Anni di inconcludenti congressi, documenti e seminari sul partito solido ovvero liquido, sulla socialdemocrazia versus liberalismo, sulla premiership distinta dalla leadership ma anche no, hanno prodotto solo numerosi e traballanti segretari, due anni di disastrato governo Prodi e sei mesi di Letta-Alfano. Naturale che, alla fine di questo calvario, fosse sufficiente un tweet di Renzi a spazzare via tutto e tutti, suonando come un liberatorio urlo fantozziano persino alle orecchie dei più trinariciuti spadellatori di piadine alle Feste dell’Unità. È come quando hai una macchina che ti dà continui problemi, la porti in officina, cambi i pezzi, ma il problema non si risolve, i soldi per comprarne una nuova non ci sono, alla fine te la tieni e smetti di consultare il meccanico: speri solo, senza troppo ottimismo, che il mezzo non ti lasci per strada.

Oggi il mezzo è Renzi, che non ha un partito dietro di sé, essendo peraltro fondato il sospetto che non gli interessi granché costruirlo. Il Pd come scontro di linee, come dialettica di maggioranza e minoranza, esiste nelle note dei giornali e nei pastoni del tg. Nella vita vissuta non ve n’è traccia. E’ l’ultimo avamposto di Second Life, sempre che qualcuno ancora si ricordi di cosa stiamo parlando, e se c’è chi pensa che un fascio di lettere all’Unità sullo scontro Staino-Cuperlo sia un bagliore di vitalità e passione io, come il maggiordomo di Viale del Tramonto, suggerirei di non guardare troppo da vicino le date sul francobollo, compreso quello sulla missiva di Bobo, visto che tra le sue raccomandazioni c’è l’invito a non replicare con Renzi l’errore commesso dai comunisti negli anni Trenta con la teoria del socialfascismo. Peccato che Bordiga non possa più dire la sua.

Ha invece ragione da vendere, Staino, quando sottolinea che Renzi surclassa i suoi antagonisti interni per capacità e coraggio, e che finalmente la sinistra ha un capo che non si sottrae alla lotta e, vivaddio, alla rivendicazione dell’esercizio del potere, dopo lustri di aspiranti premier che non lo fo per piacer mio, di leader in transito presunto verso l’Africa e di candidati segretari nella pausa tra un saggio e un romanzo.

Obiettano i maligni: che disgrazia per la sinistra aver trovato un capo proprio quando ha smesso di esistere. Siamo cioè qui alla domanda delle cento pistole: Renzi è o no di sinistra? Rispondere è un’impresa. La sua primazia non si appoggia più ad alcuna coordinata del passato. Un bene, secondo molti. Ma sbaglia, a mio parere, chi accomuna la sua esperienza a quelle di Tony Blair in Gran Bretagna o di Gerard Schroeder in Germania: lì ci fu un organico e collettivo lavoro di revisione dei cardini culturali di una parte politica. Il Labour strappava con i tomi di Giddens, il Pd con le battute di Serra (il finanziere, non Michele). La Terza via teorizzava lo spostamento al centro. Renzi, invece, non è nemmeno un centrista. Renzi è davanti, è dietro, è sopra, è sotto, di sbieco. La sensazione è che potrebbe prendere qualsiasi posizione, a destra di Alfano ma pure a sinistra di Landini, se lo storytelling lo richiede. I teorici del superamento destra-sinistra amano da anni definire questa spregiudicatezza “cultura del fare”. Magari i neo-convertiti al renzismo potrebbero citare a supporto di questa filosofia il gatto di Deng, che poco importa se è bianco o nero purché acchiappi il topo, o forse riesumare qualche motto togliattiano, perché in questo grande boh che è oggi la sinistra italiana – di cui Jovanotti è non casualmente uno degli ultimi guru rimasti – non ci viene risparmiata neppure la trascurabile ansia (di pochi, per fortuna) di legittimare la foto di Renzi nell’album di famiglia del post-comunismo.

Renzi sbandiera giustamente l’obiettivo di sottrarre consensi al campo avversario, ma non pare coltivare l’ambizione di costruirci sopra una dottrina che lo collochi in un suo campo ben definito. Non che debba per sfoggio accademico, la parabola di Berlusconi ammonisce però che nemmeno il più solido patrimonio di consenso personale sopravvive all’inflazione del tempo se non si radica in un progetto, in una comunità cementata da un pensiero oltre che dagli interessi sacrosanti ma transeunti degli 80 euro in busta paga o dell’abolizione della Tasi (ne avevo scritto qui, molto prima che Renzi diventasse segretario).

La questione è – scusate l’aggettivo ormai screditato – complessa, molto più di quanto vorrebbero quelli che la liquidano in poche battute, spiegando che il modello novecentesco di partito è tramontato. Chi può negarlo? I tempi sono cambiati da un pezzo. “Pensavo che la politica si facesse più nelle sezioni”, diceva l’ingenuo spin doctor Silvio Orlando al ministro socialista Nanni Moretti, che infatti lo gelava così: “E che siamo, negli anni Cinquanta?”. Il film era Il portaborse, l’anno il 1991. Ventiquattro anni dopo c’è chi è ancora convinto di svelare un segreto di Fatima spiegando che il mondo di Guareschi, dei film di Scola e dei viaggi a Mosca con l’associazione Italia-Urss è tramontato. Non è solo una rozza rimasticatura dello spirito dei tempi, è anche un po’ una mistificazione consapevole, un alibi pseudo-intellettuale per giustificare la disaffezione, il crollo delle iscrizioni, la fine della partecipazione, la desertificazione del territorio. Nessuno si iscrive più al Pd? Che ci volete fare – è la vulgata – volete ancora il dibattito alla Casa del popolo? Come profondità di argomentazione, siamo a un passo dal guzzantiano “allora ditelo che rivolete il comunismo”.

In realtà, la domanda di partecipazione è ancora forte.  Il Movimento 5 Stelle è un caso di scuola esemplare di costruzione di una comunità attiva intorno a un progetto politico capace di ricreare forme di attivismo non solo virtuali. I dati sul voto dei giovani sono sconfortanti per il Pd se paragonati al M5S, che ha una capacità di attrazione molto più forte su quegli under 25 che non vogliono limitarsi a mettere una croce su un simbolo ogni tot mesi. Dunque male il Pd, bene il M5S? Non proprio. La militanza è un fenomeno direttamente proporzionale alla creazione di una identità forte. L’identitarismo è, a sua volta, un elemento che può diventare una zavorra, perché tende naturalmente a creare un manicheismo che favorisce l’arruolamento ma preclude la raccolta di quel consenso ampio e trasversale che è un obiettivo irrinunciabile di una sinistra di governo. Le difficoltà in cui si dibatte il Labour sono indicative. La probabile elezione di Jeremy Corbyn, perfetto working class hero, alla segreteria laburista sta trainando iscrizioni come da tempo non si vedeva oltre Manica, ma Blair – al di là della sgradevolezza dei suoi toni – non ha tutti i torti nello spiegare che il Labour di Corbyn non avrebbe grandi chance di insidiare il ciclo conservatore.

Districarsi tra governismo e identitarismo è complicato ma irrinunciabile. Senza questo sforzo – che richiede studio, fatica, delega –  l’unico esito è il plebiscitarismo, la suggestione di un rapporto diretto tra il leader e il popolo. Una finta scorciatoia che la sinistra italiana ha sciaguratamente imboccato, inoltrandosi fino a smarrire la via del ritorno, grazie a quel tragico equivoco di democrazia diretta chiamato primarie.

La mobilità renziana è una formidabile arma di guerra tattica, ammesso che le guerre si possano vincere senza strategia. Taluni applaudono questa mobilità, altri ne sono sgomentati. La narrazione ufficiale li vuole smarriti in quanto passatisti, attaccati alla loro vecchia idea di sinistra come Linus alla coperta. Non dubito che in qualche caso sia vero. Ma sono convinto che lo sbandamento di molti elettori di sinistra (e non solo) sia non meno pragmatico e anti-ideologico del renzismo. Nasce da interrogativi prosaici: dove stiamo andando? C’è un progetto politico vero? Una classe dirigente per perseguirlo? Facile accordarsi sull’opportunità che il timone del Paese resti in mano a Renzi anziché passare a Grillo e Salvini, uniche alternative oggi in campo, più difficile accontentarsi di risposte in forma di hashtag. “Basta piagnistei”, la “svolta buona”, “l’Italia riparte” sono messaggi di un ottimismo pure sottoscrivibile, ma dovrebbero rappresentare tutt’al più una cornice. Il quadro, invece, il Pd di Renzi, ancora non si vede. Fin qui l’arte renziana somiglia a quelle installazioni contemporanee sempre in bilico tra talento e improvvisazione, esposte al rischio che qualcuno prima o poi si accorga che la signora sulla sedia, nel padiglione della Biennale, non è un capolavoro di transavanguardia ma solo la moglie di Sordi.

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Civati e le due Leopolde

Inaugurazione del Comitato Elettorale di Matteo Renzi

C’è molto sarcasmo – e talvolta un tono derisorio gratuito – intorno alla scissione di Pippo Civati dal Pd. Bisogna però dire che, anche a volersi astenere da qualunque tentazione di satireggiare, il suo addio ai Democratici è ben strano. Strano per le ragioni che lo stesso Civati adduce mentre spegne la luce e sbatte la porta, ora che è chiamato a spiegare perché servano i tetti di due partiti diversi per ospitare separatamente lui e Renzi che tanto comodamente alloggiavano insieme nel monolocale della prima Leopolda.

Sostiene oggi Civati che ad aver tradito le comuni posizioni di un tempo è Renzi, costringendolo prima a isolarsi in una battaglia minoritaria per difendere il leopoldismo della prima ora e quindi a uscire dal Pd in vista della fondazione di un nuovo soggetto politico.  Probabile che Civati abbia scelto questo posizionamento anche perché terrorizzato all’idea di essere sospinto nel recinto di quella sinistra radicale nostrana che ne limiterebbe l’elettorato potenziale e che negli ultimi anni, anche quando si è riorganizzata su basi unitarie, ha prodotto i disastri Arcobaleno e Ingroia. Eppure, per quanto le paure di Civati siano fondate, è solo lì, nell’area a sinistra del Pd che ha senso muoversi per uno scissionista. Cioè, se te ne vai dal Pd renziano, è per sfidarlo da sinistra. Altrimenti non ha alcun senso andarsene: è inevitabilmente dall’interno che andrebbe condotta la battaglia per l’egemonia. O davvero Civati pensa di poter uscire dal Pd, fondare un nuovo partito e competere con Renzi nel parlare all’elettorato moderato e non di sinistra? Già c’è poco spazio per immaginare una contesa delle due sinistre, figurarsi quella delle due Leopolde.

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C’era una volta Mazzalupi

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Vorrei dire quanto poco mi è piaciuto Il nome del figlio, e la cosa mi spiace sinceramente, ma prima consentirete un flashback.

Io me lo ricordo bene l’effetto che fece l’apparizione sugli schermi di Ruggero Mazzalupi sui militanti della sinistra. Un incubo. Lo spauracchio degli spauracchi. Un avversario dialetticamente imbattibile. Ruggero Mazzalupi era uno dei protagonisti di Ferie d’agosto, forse il miglior film di Paolo Virzì. Chi era Mazzalupi? Era un bottegaio ricco, cinico, razzista, ma con una sua simpatia istintiva. Era l’ultima riuscitissima incarnazione del villain da commedia all’italiana, solo che per ammazzare il “buono” non gli occorreva un giro assassino in spider, come al Gassman del Sorpasso: gli erano sufficienti un paio di battute sulla “fine delle ideologie” o sui “quarant’anni di consociativismo”. Erano i primi mesi dalla discesa in campo di Berlusconi e la forza di Mazzalupi era matura per abbattersi senza scampo sui rivali di sempre: non c’era più bisogno di schermirsi, come gli elettori democristiani che “il voto è segreto”. No, per i Mazzalupi il voto non era più segreto, tutt’al più inutile e sopravvalutato (“Io i partiti l’ho votati tutti!”). Alzi la mano il sinistrorso che, alla fine della mitologica sequenza del duello oratorio con Molino/Silvio Orlando, giornalista dell’Unità, quella in cui Mazzalupi piazzava un affondo decisivo sull’antagonista (“La verità è che voi intellettuali nun ce state più a capì un cazzo, ma da mo’!”), non si trovò terrorizzato davanti all’evidenza della nuova egemonia mazzalupiana, suffragata dalla chiosa dell’indigeno di Ventotene: “A me, me pare ca ave raggione u signore”. Il popolo non stava più dalla parte “giusta”. E la commedia di costume, firmata da autori rigorosamente di sinistra, stava lì a raccontarlo con crudele auto-satira. Mazzalupi resta il punto più alto di un genere – la rottamazione dei tic e dei birignao della sinistra classica, la lapide sulla presunzione di superiorità di una cultura politica già messa a dura a prova dalla fine del Pci e dal trionfo del Cavaliere – che avrebbe dilagato ben oltre il cinema: saggistica, storiografia, giornalismo. Ma ora, esaurita la necessaria premessa, la domanda è: non sarà il momento di passare oltre? Davvero, vent’anni dopo Mazzalupi, e trent’anni dopo La terrazza di Scola e l’urlo di Fantozzi sulla Corazzata Potemkin, e per sovrappiù con Renzi regnante, c’è ancora spazio per starla a menare con quanto è elitista, sconnessa e passatista la sinistra postcomunista? Oppure bisogna cominciare a dire che il genere dell’auto-satira ha raggiunto vette di conformismo, banalità e assuefazione che nemmeno gli stornelli degli Inti Illimani e i film di Glauber Rocha nei Settanta?

Una risposta a questa domanda ce l’avevo anche prima di vedere il film di Francesca Archibugi, che è l’adattamento di un testo francese, ma è di fatto il remake fuori tempo massimo di Ferie d’agosto (con un di più di sorrentinismo nell’uso barocco e prolisso dei movimenti di macchina, ma questa è un’altra storia). Gassman agente immobiliare è il Mazzalupi di oggi, Lo Cascio intellettuale sfigato e impopolare è Orlando, che ha ormai sublimato la sconfitta gettandosi a capofitto su Twitter. C’è la Roma ruspante e disimpegnata di Casal Palocco da una parte e la nuova enclave radical chic del Mandrione dall’altra. Disimpegno versus seriosità. L’ignoranza che fa consenso contro la seriosità che crea sfiga e isolamento. Tornano pure le stesse battute: il Gassman che suggerisce a Lo Cascio di votare centrodestra come atto di liberazione ricalca la scena in cui l’attoruncolo impegnato di Ferie d’agosto saliva sul palco del karaoke e si liberava una volta per tutte: “Voi sì che siete simpatici, non come i miei amici… Viva il Popolo della libertà!”. Solo che tutto ciò che nel film di Virzì, qui in veste di produttore, era nuovo e vitale, ormai è solo bolso e macchiettistico. Abbiamo assistito a troppe comparsate di Cacciari nei talk del mattino e della sera, letto troppe editorialesse di Ricolfi, visto uscire in libreria troppi saggi di Francesco Piccolo, qui sceneggiatore, per sentirci stimolati dall’ennesimo auto-da-fé. Nessuno nega che esemplari di sinistra elitista e classista esistano ancora (ecco magari, però, i figli dell’artistocrazia comunista non fanno gli agenti immobiliari, più facilmente i broker o gli editorialisti del Corriere della sera, ma pure questa è un’altra storia) e la tentazione di raccontare di nuovo il giapponese che combatte nella giungla a guerra finita ha sempre il suo fascino letterario, purché nessuno voglia farci credere quanto sia ancora urgente che arrivino i marines per stanarlo.

Senza astio, vorremmo dire a Virzì e Archibugi che i loro personaggi somigliano più a quelli del finto film di Caro diario, dove una congrega di quarantenni delusi si trovava a concionare sugli errori della militanza di un tempo, che non era solo una parodia dei luoghi comuni del reducismo (“Quanti errori abbiamo fatto!”) ma pure la spietata fotografia di un certo cinema italiano camera e tinello, più sconnesso dalla realtà persino degli orfani snob del comunismo.

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Tomas, in arte er Monnezza

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Dal Messaggero del 12/10/2014

di Stefano Cappellini

In un bar della sua adorata Roma, la città dove il cubano aspirante attore Tomas Milian arrivò nell’aprile del 1959 «precipitandovi come un meteorite» (parola di Kim Arcalli) e poi diventandone, una ventina di anni dopo e per sempre, monumento popolare, la prima reazione alla sua autobiografia appena uscita in libreria potrebbe partire come un dialogo manuelfantoniano: «Ma tu lo sapevi che Tomas Milian è bisessuale?». La differenza è che qui non c’è coatto che s’azzarderebbe a rispondere «me crolla un mito», perché il mito di Milian e del suo alias cinematografico er Monnezza – il poeta della parolaccia, il virtuoso della battuta lesta in romanesco, il Belli della rima scurrile – esce ancora più grande e rotondo dalla lettura di Monnezza amore mio (Rizzoli, 297 pagg, 18,50 euro), autobiografia scritta con Manlio Gomarasca (i cinefili lo conoscono come fondatore della rivista Nocturno), memoria a due voci in senso letterale, dato che la vita di Tomas è chiosata proprio dai commenti del suo personaggio più famoso, che naturalmente si esprime in dialetto e scrive come magna, cioè benissimo.

 
UN CUBANO A ROMA
Si parte dalle campagne cubane e dal trauma di un padre che si suicida sparandosi al cuore sotto gli occhi di un Milian dodicenne, si trasvola in una New York da Actor’s studio a cavallo tra metodo Strasberg e metodo Limonov (anche Milian, come il poeta russo squattrinato, si ritaglia una parte da mantenuto di lusso, prima presso un fotografo di moda, poi ospite di una milionaria non proprio generosa) e si finisce finalmente nella capitale dove er cubbano arriva ingaggiato per uno spettacolo teatrale di Franco Zeffirelli e, in pochi anni, dalla pensioncina di via Due Macelli fino all’attico pariolino di via Scarpellini diventa attrazione esotica prima ancora che attore professionista. Capellone, jeans sdruciti, un look trasandato non molto lontano da quello che lo avrebbe portato al trionfo di botteghino, Milian è già Monnezza ma, a differenza del suo alter ego salariato, guida auto di lusso, seduce nobildonne, trascorre le nottate al Club 84 e al Jackie O’, presenta al Piper il 45 giri del Tomas Milian Group. Sul suo conto si diffondono dicerie e leggende perlopiù false: il mito che non si lavi mai, che picchi le donne, qualcuno racconta addirittura a Luchino Visconti che si è mangiato le due pavoncelle bianche che il regista di Senso e Ossessione, suo estimatore, gli ha regalato dopo averlo diretto in un episodio di Boccaccio 70, nel quale Milian fa la parte di un conte milanese. «L’unico in Italia che può interpretare un vero aristocratico sei tu», diceva Visconti all’attore che sarebbe diventato la più grande maschera proletaria del cinema di genere italiano. E non aveva mica torto. I primi ruoli al cinema sono da aristocratico o da borghese viziato. Serve la brusca fine di un contratto d’esclusiva con il produttore Franco Cristaldi, e l’intermezzo della stagione degli spaghetti western con pellicole di culto come Corri uomo corri e Tepepa (interpretato insieme a Orson Welles), prima che Milian imbocchi la via della gloria definitiva.

 
QUINTO DA TOR MARANCIA
Succede quando i polverosi set spagnoli in Almerìa lasciano il posto all’asfalto delle città italiane, spariscono le diligenze e spuntano Kawasaki e Alfette, nasce il poliziottesco all’italiana, violento e fracassone come il western de noantri, ma con i malavitosi di borgata invece degli svaligiatori col cappellone e i commissari incazzati al posto degli sceriffi. L’anno chiave è il 1976, il demiurgo è un milite ben noto del b-movie, il toscano Umberto Lenzi, che affida a Milian il ruolo di protagonista di Roma a mano armata (Vincenzo Moretti detto il Gobbo), la scintilla è la scena al distributore quando il Gobbo, rifiutando di pagare il pieno al benzinaio La Pira Galeazzo, non rinuncia a comunicargli l’intenzione con una famigerata rima baciata. Qui nasce di fatto il Monnezza, che esordirà ufficialmente nel film successivo, Il trucido e lo sbirro, sempre girato da Lenzi, con una formula già ben definita: trama gialla, metà azione e metà comicità. Seguirà una dozzina di titoli, nei film successivi il personaggio – per una questione di diritti – si chiamerà Nico Giraldi, ma queste sono sottigliezze da filologi e per tutti resterà er Monnezza, figlio der Gratta (all’interno del Grande raccordo anulare grattare significa rubare): il capello lungo, lo zuccotto, la tuta blu, le Adidas a tre strisce, un filo di kajal sugli occhi. Mezzo Serpico, mezzo autonomo, tutto coatto, uguale spiccicato a un amico vero di Tomas e sua controfigura, ovvero Quinto Gambi, pesciarolo di Tor Marancia, «simpatico, paraculo e comunista», conosciuto una sera al Piper dove mancava poco che rimorchiasse pure Joan Baez.

 
IL FIGLIO DI ANGELINA
Nei cinema dove si proiettano i film del Monnezza ci sono solo posti in piedi. La serie delle Squadre e dei Delitti, che si prolunga fino ai primi anni Ottanta, con Sergio Corbucci alla regia e Galliano Juso produttore, incassa miliardi su miliardi. È il successo vero e Milian lo cavalca: «A me Tomas non piace, è vulnerabile, ingenuo, timido, Monnezza è coraggioso saggio, estroverso». Soprattutto, è romano. Di una romanità esuberante, volgare, certo, ma sincera e spesso irresistibile, restituita autentica dalla voce del doppiatore Ferruccio Amendola. Si aggancia più a certo neorealismo minore che alla commedia all’italiana, nella lingua riecheggia il piglio di Anna Magnani anziché il timbro di Alberto Sordi: er Monnezza è, anche anagraficamente, il figlio non degenere dell’onorevole Angelina e delle borgatare che a fine anni Quaranta baccajavano per ottenere diritti e speranza. E pure lui baccaja, mena, ‘mpiccia e ‘mbroja, nasce ladro e diventa ispettore, ma nel passaggio conserva la stessa morale personale un po’ al di sopra e un po’ al di sotto della legge, che si dispiega burbera e bonaria nei bar fumosi col Punt e mes sul tavolo e il calendario Cinzano alle pareti, sarcastica e spietata nelle ville con piscina da dove, quasi sempre, sortisce il colpevole del film.

 
DESTINAZIONE SAI BABA
Poi arrivano gli Ottanta, le notti smettono di essere boogie, Monnezza se ne va piano piano insieme al suo mondo di freaks, ladruncoli e comparse di Cinecittà, e Milian rifluisce proprio come i giovani dell’epoca: la droga, il privato, la ricerca della spiritualità in India alla corte del santone Sai Baba. Poi il ritorno negli Usa e l’inutile rincorsa del grande film americano, che per Tomas, classe 1933, nonostante qualche bel ruolo (Revenge, Traffic) non arriverà mai. Resta il rimpianto della Roma sua bella. E l’amore suo, er Monnezza, il mito che resiste anche a un trascurabile remake di pochi anni fa. Ma niente malinconia: «La vita me la sono bevuta, me la sono sc…», Vabbè, diciamo che c’ha fatto l’amore.

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Giustizia, la riforma a costo zero

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Dal Messaggero del 17/09/2014

di Stefano Cappellini

Da anni si attende una compiuta e organica riforma dell’ordinamento giudiziario. Ce n’è bisogno, e quanto. I temi sono noti da tempo e, almeno in parte, contenuti nei provvedimenti che il governo ha presentato nel Consiglio dei ministri del 29 agosto: velocizzare i tempi del processo, rafforzare i meccanismi che garantiscono la terzietà del giudizio, razionalizzare i tempi di prescrizione, disciplinare la pubblicazione degli atti giudiziari. Il veicolo scelto dal governo per intervenire su alcune di queste materie è quello del disegno di legge: significa che la parola passa al Parlamento e i tempi per arrivare all’approvazione di nuove leggi, ammesso che ci si arrivi davvero, potrebbero essere lunghi. C’è però una prima riforma della giustizia che si potrebbe varare a costo zero, senza toccare nulla. Basterebbe riaffermare con forza alcuni principi fondanti dello Stato di diritto che, per varie ragioni, si sono smarriti strada facendo, anche perché da anni una agguerrita pattuglia di editorialisti, tribuni e cabarettisti – in alcuni casi le figure coincidono – si dedica quotidianamente con successo alla loro demolizione. Ecco otto punti per una riforma che può entrare in vigore da domattina, per il semplice fatto che è composta di principi già contenuti nella Costituzione, nelle leggi dello Stato e nei codici di giustizia.

1) La presunzione di innocenza. Il garantismo non è, a dispetto di quanto ormai pensano in molti, un sinonimo di innocentismo. Non significa propendere a priori per l’innocenza di un indagato o di un imputato, ma solo pretendere che l’iter giudiziario rispetti tutte le garanzie della difesa e che nessuno si trovi a pagare una sanzione – penale, mediatica, professionale – prima di essere stato giudicato colpevole. L’utilizzo del termine inquisito come marchio di infamia può facilmente diventare uno strumento nelle mani di poteri più o meno occulti, determinati a usare la magistratura come arma di regolamento di conti personali o politici, fino ad arrivare al paradosso per cui è sufficiente l’esposto di un avversario o la leggerezza di un pm per cambiare il corso della vita pubblica di un Paese. Naturalmente esistono situazioni – parliamo soprattutto di ruoli pubblici – nelle quali può essere opportuno un passo indietro davanti alla semplice notizia di indagine, soprattutto quando può scatenarsi un conflitto di interessi tra la conduzione della difesa e il mantenimento della carica, o quando sono particolarmente forti gli elementi a carico, ma un cittadino indagato non ha meno diritti di uno non. E questo vale ancora di più per chi, la maggior parte, non fa nemmeno notizia e non ha altra tutela se non il rispetto rigoroso delle forme.

2) L’inversione dell’onere della prova. L’indagato ha diritto – urgenza, dal suo punto di vista – di produrre le ragioni della propria difesa. Ma il destino giudiziario di un cittadino non dipende – non dovrebbe dipendere – dalla capacità di difesa. È l’accusa che deve provare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Al contrario funzionava l’Inquisizione, dove all’accusa di stregoneria o di eresia – elevata a insindacabile arbitrio dell’inquisitore – ci si poteva sottrarre solo dimostrando di non essere colpevoli. Non ci si riusciva, di solito.

3) La sede naturale del processo è l’aula di tribunale. Da tempo alcuni pm, fortunatamente una minoranza, sono invece convinti che non sia così. Il loro obiettivo è teso a concentrare in pochi giorni, quelli in cui la notizia di reato finisce sui media, e nelle settimane successive, tutto lo sforzo investigativo. Il successo di un’inchiesta, in questo format giudiziario plurisperimentato, non si fonda più sul processo, la sentenza e i tre gradi di giudizio. Ciò che conta è la copertura mediatica dell’inchiesta, cui si offre benzina grazie alla pubblicazione indiscriminata di atti in teoria coperti da segreto istruttorio. Abbiamo assistito anche a casi di inchieste congegnate, di fatto, per esplodere solo mediaticamente. In tali casi, più i nomi coinvolti sono di rango, più la tesi accusatoria è ampia e generica ma roboante, più il pm potrà spiegare il successivo flop con la tesi dei poteri forti che hanno impedito lo sviluppo dell’azione penale. Una tesi che frotte di dietrologi sono felici di trangugiare. E che spesso apre le porte della politica all’ex toga.

4) La pubblicazione di intercettazioni. Da anni si battibecca su questo punto, eppure non è difficile venirne a capo. Le intercettazioni sono uno strumento essenziale di indagine e la loro limitazione rischia di essere un ostacolo all’azione di molti bravi magistrati. In questi anni la loro divulgazione illimitata ha però fatto scempio dei diritti. Il problema non riguarda solo tutti quei cittadini che, pur non oggetto di indagine, hanno visto le loro conversazioni pubblicate sui giornali ma anche gli stessi indagati, le cui conversazioni telefoniche sono state date in pasto all’opinione pubblica a prescindere dalla rilevanza penale. Si tratta di un circuito perverso: i media alimentano il voyeurismo, alcuni pm se ne servono per riscuotere attenzione. Una battuta antipatica, una frase razzista, un commento sboccato difficilmente hanno a che fare con il codice penale, però contribuiscono a spostare il consenso verso l’accusa. Una legge che fissi dei paletti è auspicabile, ma intanto ci sarebbe già il segreto istruttorio da rispettare. Ci sarebbe.

5) La tentazione del giudizio morale. Un magistrato non è un prete. Non deve sindacare sul rispetto di comandamenti ma delle leggi. Non gli competono giudizi sulla moralità delle persone su cui indaga o che è chiamato a giudicare. È diventata invece prassi consolidata infarcire gli atti di valutazioni etiche o aggettivi (“turpe”, “spregevole”, ecc.) che, spesso, non hanno alcuna relazione con il reato contestato. Perché di un tangentista non importa sapere se è un traditore della fedeltà coniugale ma solo se ha rubato, di un corruttore non conta se ha riso di disgrazie ma se ha corrotto o no. La demolizione della personalità dell’indagato è invece strumento largamente perseguito, spesso per surrogare la mancanza di prove concrete.

6) Inchiesta sull’universo mondo. Il raggio di azione di un pm è necessariamente soggetto ad alcune limitazioni. La prima delle quali è territoriale e prescrive che a occuparsi di una notizia di reato sia la Procura competente. Questo principio è più volte saltato e ormai ci sono pm che non riconoscono confini alla loro azione, se non quelli della notiziabilità delle inchieste da intraprendere.

7) La differenza tra giudice e storico. La missione di un magistrato non è riscrivere la storia, magari con l’idea – esplicitamente teorizzata a proposito del processo sulla trattativa Stato-mafia – che gli strumenti coercitivi dell’azione giudiziaria possano arrivare laddove lo storico non arriva con le sue fonti e i suoi strumenti.

8) Le invasioni di campo. La missione della magistratura non è riformare il sistema politico ma perseguire i reati. Né le toghe possono rappresentare un contropotere legislativo. I pm hanno lamentato, spesso a ragione, invasioni di campo da parte della politica, ma sconfinano a loro volta tutte le volte che usano la forza sindacale per inibire il legislatore dal mettere mano alle riforme di settore.

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Le prigioni di Corona

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Fabrizio Corona non è Silvio Pellico. Non è nemmeno Enzo Tortora. Fabrizio Corona è un esuberante personaggio che ama vivere sul confine della legalità, anzi che ha il gusto di oltrepassarlo spesso deliberatamente quel confine, di scoprire l’effetto che fa, di coltivare il suo maledettismo da manuale e assumere la posa da bad boy che poi gli permette di dire “non sono uno stinco di santo” facendo subito storcere tanti nasini dritti. Eppure non essere un patriota in ceppi, come Pellico, o un galantuomo incastrato da camorristi sgozzateste coccolati dai pm, come Tortora, non dovrebbe impedire di considerare il suo come un caso di malagiustizia. A meno di non pensare che un’ingiustizia vada combattuta e denunciata solo solo se a subirla è un individuo che una auto-proclamata comunità di eletti riconosce come degno. A meno di non pensare che un’ingiustizia sia una sanzione comunque meritata se si abbatte su individuo che magari penalmente non la merita ma moralmente – a giudizio della suddetta comunità – sì, e quindi i conti tornano comunque.

Chiariamo: non si tratta di attardarsi nel solito teatrino tra innocentisti e colpevolisti, alcune delle condanne subite da Corona sono ineccepibili, ma le ragioni per cui sta subendo una detenzione spropositata rispetto ai reati commessi e a quelli non commessi, ma incredibilmente addebitati a suo conto, sono grosse come faraglioni e le spiega bene qui Filippo Facci. Il fardello di galera che Corona deve portarsi per i prossimi dieci anni scarsi non è figlio di un errore isolato di un magistrato o di una giuria. Sarebbe più rassicurante. Corona paga un accanimento che nasce dai suoi atteggiamenti, dalla scelta di scontrarsi apertamente con i pm e dalla ostinata volontà di non inseguire scorciatoie e patteggiamenti ottenendo in risposta aumenti di pena rispetto alle richieste dell’accusa, contestazioni di aggravanti molto fantasiose, nuovi capi d’imputazione spuntati in corso d’opera.

Corona ha usato le aule dei tribunali come palcoscenico del suo personaggio e le sue intemperanze sono diventate, nelle mani dell’accusa e agli occhi dei giudici, elementi del processo, indizi di una presunta colpevolezza morale che ha trainato, e talvolta surrogato, quella penale. Chi ha seguito le udienze dei suoi processi sa di cosa parliamo. Corona, per dire, si diverte a pronunciare la parola “cazzo” mentre testimonia in aula di tribunale. Il presidente lo esorta a usare un linguaggio consono. Lui dice “pene” un paio di volte, con effetti ancora più esilaranti, poi torna a dire cazzo, perché gli viene naturale, perché in fondo è il suo modo di dire alla Corte sono qui ma non mi piego alla vostra recita, non gioco alla parte del bravo ragazzo, sto qui alla vostra mercé ma sono più intelligente, vivo e furbo di voi. Atteggiamento opinabile, non ancora un reato.

Io penso che Corona sia intelligente. Che sia vivo, seppur chiuso in una cella già da qualche anno, pure. Furbo no, perché in Italia i furbi non finiscono in galera condannati a dodici anni complessivi, con loro le maglie della giustizia solitamente si allargano, con loro succede al contrario che per Corona: le pene si riducono, i reati si prescrivono, le accuse smettono di sussistere. Ma provate a parlare con un amico, un conoscente, un collega, provate a parlare con loro del caso Corona. Nove volte su dieci alzeranno il sopracciglio, prima penseranno a uno scherzo, una battuta, poi propenderanno per la provocazione, quindi si allontaneranno veloci dalla conversazione non prima di aver scolpito un giudizio su quella canaglia che sta bene dove sta. I peggiori in assoluto sono certi interlocutori sinistrorsi, che con una smorfia del viso comunicano un traducibilissimo pensiero: ma davvero siamo a perder tempo per occuparci di uno che è l’ex marito di Nina Moric e l’ex findanzato di Belen? Uno che intrallazzava con Lele Mora, uno che trovavi sui rotocalchi da 50 centesimi e nei pomeriggi tv Mediaset, uno che è il contrario del personaggio pubblico meritevole, cioè il regista girotondino, lo scrittore impegnato, l’ospite d’onore di Fazio? Uno che dove siamo andati a finire se ci mettiamo pure a difenderlo.

Ieri, su twitter, ho avuto uno scambio di opinioni con un autore e umorista di cui sono fan, Luca Bottura, il quale ha buttato in farsa questa mini-mobilitazione per la grazia a Corona e sostenuto che la campagna nasce dall’ansia di assolverci tutti assolvendo Corona. A me pare esattamente il contrario: è condannare Corona al suo destino, è scrollare le spalle davanti alla sua vicenda giudiziaria che ci rassicura sulla nostra condizione di bravi cittadini, sul fatto che non siamo al suo posto perché siamo diversi da lui, perché siamo migliori di lui. E io mi chiedo innanzitutto – senza retorica – se tutti quelli che pensano che Corona meriti in ogni caso il suo destino da galeotto in quanto Corona abbiano quelle condotte specchiate, quei curricula immacolati, quella disciplina sociale che implicitamente sbandierano mentre rivendicano la loro superiorità sul reietto del gossip, sul guappo in gessato. Mi chiedo poi come possano sentirsi a loro agio, nei panni dei bravi cittadini coscienziosi, se decidono di ignorare deliberatamente un’ingiustizia che grava su un essere umano solo perché lo considerano, senza alcun diritto se non la propria supponenza, di categoria inferiore. E mi chiedo infine quanti ce ne siano, di “inferiori” in galera con pene sbagliate, esagerate o del tutto ingiuste, e che non chiamandosi Corona non possono sperare in niente, nemmeno in un sopracciglio alzato su un volto benpensante.

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Uno dieci cento Tavecchio

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L’elezione di Carlo Tavecchio alla presidenza della Federcalcio racconta molto dell’Italia che viviamo. Conferma, innanzitutto, che si può raggiungere una carica pubblica anche dopo essersi macchiati di un’uscita che impropriamente è stata definita gaffe e che invece era l’espressione di un pensiero compiuto e tutt’altro che involontario, come la famigerata battuta sugli «Optì Pobà mangiabanane», ovvero i giocatori neri che vengono a giocare in Italia (del resto, se un ministro dell’Interno può annunciare in pompa magna una lotta dura ai “vu’ cumprà” non staremo mica a chiedere conto a Tavecchio?). Se il mondo del calcio si illude che sia sufficiente la retromarcia di Tavecchio a renderlo presentabile agli occhi dei suoi futuri interlocutori, o che basti la legittimazione del voto democratico – il neo-presidente è stato eletto al termine di un regolare elezione tra gli aventi diritto – a seppellire la questione, sbaglia. Ma la verità è che il calcio non si illude. Anzi, l’inciampo di Tavecchio lo rende ancora più debole e manovrabile. I suoi grandi elettori – da Claudio Lotito ad Adriano Galliani – non chiedono di meglio.

Racconta, l’elezione di Tavecchio, che in questo Paese ci si può spacciare per alfieri del cambiamento non solo a dispetto della carta d’identità – che non è mai un indicatore certo di svecchiamento reale – quanto di una gestione del potere già pluridecennale e di una fedina penale non proprio specchiata. Chi accusa la politica di scarso ricambio dovrà ricredersi dopo aver sfogliato l’album dell’Hilton Rome Airport di Fiumicino dove si è celebrata l’incoronazione di Tavecchio: Carraro, Beretta, Matarrese…

Racconta, infine, perché questo Paese faccia tanta fatica a cambiare, a migliorarsi, a puntare sul futuro. Tavecchio è stato eletto nonostante l’opposizione di proprietari di club che si chiamano Andrea Agnelli, Giorgio Squinzi, Diego Della Valle, Urbano Cairo e James Pallotta, l’unico tycoon straniero che ha scelto di investire nella nostra serie A, senza dimenticare che Sky, principale finanziatore del giocattolo, ha preso una posizione durissima contro Tavecchio. Poteri forti, in teoria. Ma l’Italia è da anni un Paese troppo debole per esprimere poteri forti nel vecchio senso del concetto. Il nocciolo del potere è in quelle corporazioni che blindano le proprie rendite per spartirsele senza alcuna progettualità, senza responsabilità sociale, senza visione comune. Il calcio è una di queste corporazioni, ma il meccanismo vale per i cartelli bancari, per la burocrazia di Stato, per le professioni pubbliche e non (magistrati, avvocati, commercianti, giornalisti, ecc.). Tavecchio ha vinto perché è il cartonato dietro il quale un pugno di padroni del vapore può perpetuare il proprio controllo del Palazzo mentre vassalli e valvassori – in questo caso i presidenti di B e C – si accodano per puro assistenzialismo spartendosi il grasso abbondante che cola dal vaso dei diritti televisivi e che, non dimentichiamolo, è riempito in buona parte con i soldi dei tifosi: la tassa della passione. Stadi vuoti, calcio-scommesse, regole labili, tutto ciò che affligge il calcio italiano non conta: basta che i rubinetti non si chiudano e che chi sta in cima continui a tenerli aperti a prescindere, senza chiedere in cambio nulla, non la serietà, non l’organizzazione e gli investimenti, figuriamoci l’onestà. In cambio, in Italia, è richiesta solo la fedeltà, così che sia sempre possibile eleggere ovunque uno dieci cento Tavecchio.

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Il bernoccolo del Valle

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Ci sono due modi di andare all’osso del dibattito sul teatro Valle occupato. Il primo – che scarterei con decisione – è aprire il dibattito sulla qualità dell’offerta culturale in questi tre anni di occupazione. Da una parte ci sono i sostenitori dell’esperienza, che rivendicano spettacoli di qualità, serate con ospiti autorevoli e, soprattutto, una partecipazione viva e rinnovata alla vita del teatro. Dall’altra ci sono i detrattori, che sviliscono gli eventi allestiti, fanno i conti di spese e mancati introiti e accusano gli occupanti di impreparazione, arronzamenti culturali e sbrachi tipo le partite dei mondiali al posto dei Pirandello. La mia impressione, prima di scappare in fretta da questo fronte, è che i sostenitori abbiano delle buone ragioni nel riconoscere agli occupanti di aver supplito con impegno e dignità al default della governance precedente e che tra i detrattori ci siano molti specialisti del partito preso. Evidente però che su questo terreno l’opinabile è padrone: ci sono critici che ancora a distanza di decenni si accapigliano sulla qualità del tal allestimento ronconiano, la baruffa non durerà meno ingarellandosi a decidere se fa più cultura sociale un maxi-schermo e ventidue giocatori a caccia del pallone o una più classica soirèe con sei personaggi in cerca di autore. A scendere su questo terreno non si fa un solo passo avanti sulla questione fondamentale: gli occupanti hanno diritto a restare dentro il teatro o devono cedere il passo?

In queste ore al Valle è in corso una discussione sullo sbocco possibile della trattativa con il Comune e il Teatro di Roma. In teoria, c’è la disponibilità degli occupanti a lasciare il teatro il 10 agosto (qui le condizioni per l’auto-sgombero). Nei fatti, si oscilla ancora tra questa possibilità (gli occupanti lasciano il teatro e si studiano forme di co-partecipazione) e ipotesi di resistenza a oltranza (gli occupanti non lasciano e si fanno scudo della Fondazione cui hanno dato vita). Uno dei tavoli di lavoro si chiama così: “Restituire una narrazione in grado di raccontare la complessità di questa fase di transizione e la difficoltà del dialogo con le istituzioni”.

A me pare che, nonostante gli sforzi teorici e giuridici per dare fondamento alla loro esperienza, gli occupanti non abbiano scavallato il problema principale che si oppone ai loro tentativi: come si fa a rivendicare la pubblicità di un bene che è già pubblico? Perché questo è il punto. Il teatro Valle è proprietà di una istituzione che si chiama Comune di Roma. Comune. Mio, tuo, nostro. Di tutti. Non ci si vuole costruire un supermercato, un centro commerciale o villette a schiera. Si vuole restituire il teatro a una amministrazione che può anche ergersi su nuove forme di partecipazione e cogestione – è lecito auspicarlo – ma deve per forza tornare al suo pieno status di proprietà pubblica. Altrimenti, la determinazione degli occupanti a restare in campo diventa una forma di privatizzazione. Un bene che è pubblico, il Valle, diventa appannaggio di una comunità che avrà pure tutte le migliori intenzioni del mondo sull’utilizzo del teatro, ma mai – nemmeno sfoggiando la conoscenza della più sofisticata manualistica sui beni comuni – riuscirà a dimostrare di avere più titoli pubblici di un ente che si chiama appunto Comune, i cui organi deliberanti sono espressione diretta della volontà popolare.

L’impressione è che gli occupanti siano consapevoli che qui sta un bernoccolo che non si spiana. Tanto consapevoli che, alla fine, l’unico vero argomento in campo per proseguire la battaglia diventa questo: non possiamo riconsegnare il teatro a chi l’ha portato allo sfascio. E però, nel ricordare a buon diritto che il Valle è stato portato a un passo dalla rovina, gli attuali inquilini del Valle si rifugiano in una polemica singolare in bocca a dei campioni del benecomunismo. Perché il loro ragionamento suona di fatto così: il pubblico non funziona, ci pensiamo noi. Ma la teoria che il pubblico non funziona e che la gestione di alcuni sevizi deve passare in altre mani è il cavallo di battaglia su cui destra e sinistra liberista sono saltati in groppa negli ultimi due decenni per delegittimare la mano pubblica. Chissà quante articolesse a tesi hanno letto gli occupanti su quei giornali che oggi – con rozzezza talvolta pari a quella dei grillini – accusano di faziosità e prevenzione nei loro confronti. Dice: ma quelli del Valle mica vogliono privatizzare o speculare, anzi sostengono di essere l’unica garanzia che il Valle sia davvero pubblico. Bene, ma non contano le intenzioni, conta la forma che è poi sempre sostanza.

Chi è a favore del pubblico si batte affinché il pubblico funzioni, specie nei casi come il Valle, dove non sussiste alcun dubbio sul fatto che un Comune come quello di Roma ha tutti i mezzi e le risorse per far funzionare la struttura e ha il dovere di attivarle senza alcuna necessità di ricorrere a forme di sussidiarietà. Se invece si invoca la sostituzione del pubblico per inadeguatezza, o la sua surroga, ci si mette su un piano scivoloso e inclinato. Forse qualcuno degli ideologi del Valle pensa di essere in scia a Toni Negri e alla sua distinzione tra “pubblico” e “statale” ma in realtà è molto più vicino a Cl e a un seminario da meeting di Rimini.

L’Italia è piena di enti pubblici che erogano servizi essenziali – la cultura è senz’altro uno di questi – che claudicano o che sono tecnicamente in default. Con quale credibilità gli occupanti del Valle, e chi ne sostiene le ragioni, potranno opporsi domani a chi chiede che la proprietà passi di mano per togliere il controllo a coloro che, per conto della collettività, ne hanno provocato il tracollo? Sulla premessa che loro suono buoni e gli altri rapaci? Premessa che sarà pure vera, ma dall’unico punto di vista che conta – quello politico – resterà sempre indimostrabile. Senza contare che di buoni e colti possono presentarsene altri, a rivendicare diritti di gestione o di co-partecipazione. Che si fa? Vince chi occupa per primo?

La battaglia di questi tre anni è servita a dimostrare quanto sia importante nella vita cittadina una istituzione come il Valle e la responsabilità che grava su chi ne deve garantire il funzionamento. Adesso, vinta la battaglia, è ora che il bene comune torni nelle mani di tutti.

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Il romanzo dei Buoni

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A voler essere pigri, c’è una facile chiave di lettura de I Buoni, il romanzo di Luca Rastello da poco in libreria ma sulla bocca di molti già prima della sua uscita: basta lasciarsi sedurre dal gioco degli alias, un gioco dove si vince facile grazie alla immediata riconoscibilità di personaggi, fatti e luoghi reali che si celano dietro il sottile paravento della finzione. Ecco il prete in maglione sdrucito, icona della legalità e cantore dell’impegno di strada (nel racconto si chiama don Silvano ma è chiaramente un alter-ego di don Ciotti); la sua onlus attiva nel campo dall’antimafia e dei servizi sociali con sede in una città mai citata ma che non si fa fatica a identificare come Torino; c’è la cerchia di personalità del mondo della politica, della cultura e dello spettacolo che supportano il don con parole e opere (tipo il famoso magistrato locale con storica militanza a sinistra, o la comica che ha tanto successo in tv con il suo mix di parolacce e predicozzi populisti e che, a telecamere spente, ha con il popolo un rapporto non proprio di empatia, o ancora il rocker “maledetto” che finanzia le attività e si riconosce pubblicamente nella sbandierata teologia degli ultimi); c’è soprattutto un dietro le quinte dove si racconta come i mezzi con i quali questa organizzazione persegue i suoi presunti fini sono la negazione dei principi propagandati: bilanci taroccati, razzia di fondi pubblici, uso privatistico delle strutture, abusi sessuali, dipendenti mobbizzati e licenziati, finanziamenti su estero e finanziatori ambigui (in cima alla lista dei munifici benefattori di don Silvano c’è un personaggio che ha un curriculum perfettamente coincidente con quello di Giuliano Tavaroli, ex capo della sicurezza di Pirelli e Telecom prima di finire al centro di una nota inchiesta a base di spionaggio e ricatti). Capirete bene, dopo questo elenco di malefatte, come appaia una innocua digressione l’esplicita allusione a un love affaire tra il don e la protagonista femminile del romanzo, ragazza rumena ex sbandata che il don accoglie e promuove prima che il lato oscuro travolga tutto e tutti.

A rafforzare la chiave pamphlettistica e retroscenesca del romanzo concorre infine il fatto che Rastello, con il gruppo di Abele di don Ciotti, ha lavorato per anni e con ruoli di responsabilità, tra i quali la direzione della rivista Narcomafie, e che un altro dei personaggi della storia – il tormentato e colluso Andrea – è cesellato con gli attrezzi e il materiale dell’autobiografia.

Naturalmente la notorietà e l’autorevolezza della figura presa di mira ha scatenato subito un bel dibattito: i giornali di destra non hanno mancato l’occasione per mettere in discussione un santino della controparte (nella narrazione trova posto anche una storia finita di recente sulla stampa destrorsa, e cioè la denuncia di un uomo che sostiene di essere stato aggredito e picchiato da don Ciotti dopo aver chiesto invano che fosse regolarizzato il suo contratto di lavoro: nel romanzo la lettera di don Silvano per scusarsi con quest’uomo è il calco fedele di ricalcata scritta e divulgata nella realtà da don Ciotti). E’ bastato poi che Adriano Sofri segnalasse sul Foglio l’uscita del romanzo (con un pezzo molto equilibrato e ricco di domande più che di asserzioni, peraltro) per armare la penna del network ciottiano con accuse di malafede e lesa maestà (prima l’intervento di un campione a oltranza del societàcivilismo, Nando Dalla Chiesa, subito seguito da quello di Gian Carlo Caselli, entrambi non casualmente ospitati dal Fatto, un giornale che ha molto a cuore la distinzione tra Buoni e Cattivi e che di base la esplica nella distinzione tra abbonati e lettori del quotidiano versus non abbonati e non lettori).

Per non restare travolto dal vento del gossip e forse anche per evitare che questo vento disperdesse la notevole qualità letteraria del suo lavoro, Rastello è intervenuto a sua volta nel dibattito per cercare – un po’ goffamente, a onor del vero – di sminuire il legame del suo racconto con fatti e personaggi reali. L’operazione non può dirsi riuscita, ciò non toglie il diritto dell’autore a rivendicare per il suo libro un’attenzione che non si riduca al gioco del chi è chi o del “davvero è andata così?”. Solo così, sottraendosi alla tentazione del giurì d’onore per stabilire se le mancanze e di don Silvano e della sua corte dei miracoli abbiano un corrispettivo nella realtà, anzi dando per buono che don Ciotti e i suoi non abbiano nulla a che spartire con la finzione, si può arrivare a privilegiare la seconda chiave di lettura e rendere giustizia al grande merito de I Buoni. Che è a mio giudizio l’aver interpretato con una potente ed elegante veste narrativa uno spirito del tempo – vorrei dire spirito maligno, a patto che nessuno lo prenda per un nuovo pruriginoso rimando al religioso protagonista.

Attraverso le vicende di questa holding del “Bene assoluto che si erge contro il Male assoluto”, di questa casta dei Buoni che rivendicando un primato morale “traveste da inclusione la quintessenza dell’esclusività”, Rastello ha dato forma presente al romanzo più politico degli ultimi anni. Ha ragione Goffredo Fofi, citato in quarta di copertina, a definirlo “un romanzo tutto del nostro tempo, finalmente”. Rastello ha scansato tutti i canoni modaioli della letteratura a chiave politica, spesso tesi a trasfigurare il presente in un altrove storico e geografico. Lontanissimo dal danbrownismo insurrezionale alla Wu Ming, dal pop-noir alla Carlotto/Lucarelli o dal bolso lirismo della narrativa reducista, I Buoni è la testimonianza di un qui e ora assoluto e devastato. E il cuore di questa devastazione non è la denuncia di come in questo Paese, segnato da una profonda distonia tra leggi formali e comportamenti sociali, il culto della legalità sia servito più da facciata per la coltivazione di affarismo e carrierismo che per ristabilire il rispetto dei codici. I Buoni non corre mai il rischio di esaurirsi in un facile allarme sul male che si insinua nel campo del bene e lo minaccia, sennò giocherebbe allo specchio sullo stesso terreno manicheo dei personaggi che si agitano nel romanzo o di quei talk show dove ogni settimana i Buoni sono chiamati a officiare il rito della lotta ai Cattivi (il santorismo, va da sé, è insieme la massima espressione mediatica del partito dei Buoni e il tempio che ha definito alcune delle principali regole d’ingaggio della politica e dell’impegno trasformati in teologia dello spettacolo).

Ogni anfratto narrativo de I Buoni contribuisce, al contrario, a demistificare la pretesa stessa che esista un confine marcato tra Bene e Male e soprattutto che su questo confine si possa e si debba costruire – come è invece accaduto – una visione generale delle cose del mondo. Demolisce il mito della società civile che surroga le carenze delle politica e schizza una realtà dove la sconfitta della partecipazione e la drammatica assenza di un orizzonte collettivo ha lasciato campo libero al moralismo delegato e all’impegno ipocrita (“Tutti abbiamo bisogno di convivere con il male, fingendo di combatterlo”). Racconta come il partito dei Buoni abbia di fatto privatizzato la militanza sociale, offrendo a un pezzo della stanca e declinante società italiana un comodo outsourcing della solidarietà, una partita di giro da cui ciascuno guadagna qualcosa: gli adepti, la purificazione delle coscienze; i sacerdoti, il potere e il business (“Molti criminali sono migliori dei sacerdoti di questa legalità”).

Svela un colossale auto-inganno collettivo, la tragica illusione dei sedicenti migliori – loro sì consapevoli e attivi a differenza degli incolti idioti che si lasciano ingannare dai pifferai magici – dimostrando come i Buoni rispondano ai comandi di un marketing non meno di scientifico di quello berlusconiano: l’uso di forme lessicali standard (la prima persona plurale, l’ossessivo ritorno di alcune espressioni e parole, vedi alla voce “memoria”), l’acritico culto della personalità (specie se togata, inutile citare qui la lunga serie di cavalieri del Bene, da Di Pietro a Ingroia e De Magistris che con le loro incursioni in politica hanno disastrato una sinistra già pericolante di suo), la strategica pianificazione delle campagne mediatiche e la scelta dei temi di intervento su base sondaggistica (è così che la “lotta alla droga”, sotto le cui insegne si sperimentano le prime adunate dei Buoni, nel tempo quasi sparisce per lasciare il campo al sociale e alla lotta alla criminalità quando l’eroina è definitivamente surclassata dalle mafie in cima all’elenco delle emergenze percepite).

Infine, I Buoni ci consegna di soppiatto lo spietato racconto della trasformazione antropologica, prima ancora che politica, di una parte rilevante della sinistra di questo Paese. Dei suoi ideali, dei suoi scopi pratici, del suo ruolo sociale e culturale. Demistifica riti e miti di quel pezzo di società italiana che negli ultimi trent’anni anni, rivendicando un inconsistente primato morale e delegando la questione sociale alla carità dei Buoni, si è crogiolato in un mix di ottuso legalitarismo (“La legalità dovrebbe essere un metodo ma loro l’hanno trasformata in un valore in sé assoluto, il loro vitello d’oro”) e manicheismo troglodita (“Chi non è con noi è contro di noi”). Quella sinistra che ha dovuto persino dismettere le proprie insegne, ora che la nuova furiosa crociata dei Buoni è egemonizzata da un ex comico politicamente molto ambiguo, e che non poteva finire altrimenti, essendo nata all’incrocio dei vizi peggiori dell’album di famiglia. Dal declinante Pci di Enrico Berlinguer ha ereditato, sublimandolo, il mito della diversità e della questione morale, trasformata però in mera ansia giudiziaria. Dai movimenti ha invece succhiato il rifiuto per la politica istituzionale, la mitologia (più spesso mitomania) del fuori e del contro, la primazia del “sociale” che ha posto le basi per un felice disimpegno vestito però di finta coerenza con gli ideali ribelli di un tempo. Del resto, all’uscita degli anni di piombo c’è chi si è buttato sugli ashram indiani, i centri di meditazione guidati da guru dello spirito. E c’è chi si è dato al business. Ma era ora che la fabula narrasse soprattutto di chi ha capito che il business del futuro erano proprio gli ashram.

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